Dal Quadro Storico al Racconto Verista

di Paolo Stivani

L’evoluzione dell’arte in Italia, dal Congresso di Vienna al “dopo Unità”, è complessa e indubbiamente non ai livelli di altri Stati europei.

L’Europa, al tavolo del Congresso di Vienna, vede dei paesi fortemente legati alla loro unità territoriale, consapevoli di essere Stato-Nazione e assolutamente decisi a non perdere il loro ruolo di colonizzatori di cui l’Italia è una reale espressione.

L’essere “colonia” è un dato molto importante per l’ evoluzione dell’arte di un paese, perché, quando non si vive un’autonomia politica, l’espressione artistica tende a rivolgersi al proprio interno e così o riproduce se stessa e gli antichi valori oppure è costretta a riprodurre la cultura dei propri colonizzatori. Per superare una tale situazione critica sono necessarie le “libertà” e, con esse, anchequella artistico-espressiva.

Raffaele Faccioli nasce e cresce culturalmente in un periodo in cui, il senso della libertà è forte e indomito. Infatti, in quegli anni, si incrociano e si evolvono cinque rivoluzioni: con la rivoluzione politica nascono gli stati costituzionali; con quella economica nasce il liberismo; grazie alla rivoluzione sociale la borghesia si propone come classe egemone e prendono corpo quelle che saranno le associazioni dei lavoratori; la rivoluzione territoriale porta all’unificazione degli stati della penisola italica sotto la guida dei Savoia. Si verifica infine una rivoluzione dell’ arte che consiste, sotto l’aspetto istituzionale, nella riforma delle Accademie di belle Arti; sotto quello commerciale, nel cambiamento delle “committenze” e, per quanto riguarda l’espressione artistica nella rivoluzione nel “vero”.

Tralasciando un’analisi delle rivoluzioni politiche, sociali ed economiche di competenza di altre branche del sapere, è importante, come introduzione all’artista Faccioli, dare informazioni, seppur succinte, su quelle che si riferiscono all’arte, avendo ovviamente come riferimento la realtà bolognese. Ciò è stato possibile, prendendo come riferimento i saggi di Alessandra Borgogelli, Renzo Grandi e Claudio Poppi, scritti per il catalogo della mostra “Dall’Accademia al vero. La pittura a Bologna prima e dopo l’Unità” che si svolse nella nostra città nel 1983.

 

La rivoluzione delle Accademie

Prima dell’Unità, l’Accademia Clementina di Bologna cerca di mantenere vivi e alimentare i principi della conservazione. 

A tal proposito viene abolito l’Alunnato romano che costituiva l’unica possibilità di aggiornamento per i giovani studiosi. Quello che si mantiene e si continua a trasmettere è lo stile “clementino”, che dà interessanti risultati in tutti quei rami dell’attività artistica che chiamiamo minori, comela prospettiva, la scenografia e la decorazione.

Comunque, dal 1845, anno della morte del presidente dell’Accademia marchese Antonio Bolognini Amorini, sono da riscontrarsi, da parte delle successive direzioni,i seguenti tentativi di rinnovamento: 1. la decadenza degli accademici clementini e dei loro seguaci; 2. il riconoscimento del valore degli artisti Masini, Cocchi, Lipparini,Campedelli, Palagi, Tavolini e Ferri, considerati i veri “riformatori” dal cui insegnamento le giovani generazioni bolognesi possono andare nella direzione del “vero”come sta succedendo in Italia e in Europa; 3. la necessità di istituire anche a Bologna associazioni artistiche senza rigide regole di partecipazione, da parte degli artisti, alle esposizioni e che, nella logica del libero mercato, vedono nella sempre più egemone classe borghese una nuova e interessante committenza.

La soluzione a ciò è ravvisata nella Società protettrice delle Belle Arti voluta dalpresidente dell’Accademia marchese Carlo Bevilacqua nel 1853 e che soppianterà leannuali esposizioni accademiche nel 1856.

Dopo l’Unità, Bologna diventa l’accademia della regione Emilia, inglobandoquelle di Modena e Parma; vengono eliminate le esposizioni annuali, sostituite datriennali a carattere regionale.

La vecchia accademia era il referente per le commesse di opere monumentali e celebrative e, venendo a mancare lo strumento (l’esposizione annuale) di pubblicizzazione del prodotto artistico, perde tale funzione, che verrà assunta, per un certo numero di anni dalla Società protettrice, poi definitivamente dalle esposizioni nazionali, daiconcorsi curlandesi e da associazioni come la Francesco Francia e il Circolo Artistico.

Una istituzione privata nata nel 1825 che continuerà, anche dopo l’Unità, ad averefunzione educativa e di supporto all’accademia stessa, è il Collegio Venturoli. “Fondato con un cospicuo lascito dall’architetto Angelo Venturoli, il collegio accoglie,dal dodicesimo anno di età, i giovani che intendono dedicarsi all’attività artistica.Pur frequentando contemporaneamente l’Accademia, i giovani trovano all’interno del collegio un clima di maggiore libertà e apertura, alimentato anche dagli insegnanti che, come Serrazanetti per la pittura, seguono gli alunni all’interno dell’istituto. Non è infatti un caso che da detto collegio escano artisti della levatura di Luigi Busi,Raffaele Faccioli, Luigi Serra e Mario De Maria. 

Nel 1855 il collegio istituisce tra l’altro, con lascito di un facoltoso mercante, la Pensione Angiolini che permette ai giovani allievi di perfezionarsi negli studi. Dopo la soppressione dell’accademico Alunnato romano, è questa la prima possibilità di aggiornamento fornita dai giovani artisti bolognesi da un istituto cittadino.

La rivoluzione del "vero"

I moti risorgimentali con le loro ideologie e i loro sentimenti fanno da catalizzatore ai fermenti anticlassicisti che pretendono, a metà del secolo diciannovesimo, il cambiamento nell’arte.

Nel corso del processo per l’unificazione del paese si era registrata un’ampia partecipazionedegli intellettuali al moto risorgimentale; pur dislocati diversamente negli schieramenti politici nazionali, essi avevano esercitato una funzione preziosa nel determinare momenti di unità a livello ideale e nell’approntare, soprattutto attraverso l’opera della letteratura, della filosofia e anche della pittura, un corpus di posizioni ideologiche capaci di fondare e riempire di contenuti l’idea di nazione che risulta, indistintamente per tutti, un’idea basilare. Nel novero degli intellettuali che partecipavano attivamente alla battaglia risorgimentale vanno compresi anche quei pittori “giovani” che univano agli idealipatriottici quelli del rinnovamento artistico, della lotta alle Accademie e agli accademisti.

L’ “occasione” risorgimentale per i pittori “giovani” fu altresì un momento d’incontro tra persone di differenti provenienze geografiche e culturali, di confronto e di consolidamento di quei principi che spingevano a “fare arte”.

Il processo per l’Unità d’Italia fu dunque, per un certo numero di artisti , la tessera fondamentale di un mosaico composito che artisticamente comprendeva la coscienza del principio del “vero”, la critica all’Accademia, con il conseguente affrancamento da essa, e gli stimoli a un rinnovamento sostanziale. E come a livello politico, così a livello artistico, i concetti propulsori possono essere indicati nella libertà, unità e individualità. Su tali concetti, infatti, si fondono le “scuole” che sorgono in Italia dopo il 1861 e che rivestono carattere nazionale attraverso lo scambio di informazioni e di idee, i contatti personali e di gruppo. Con il termine “scuole”, infatti, ci si riferisce a quei “centri” di Piagentina e di Castiglioncello ( Abbati, Borrani, Sernesi, Lega, Fattori, D’Ancona) in Toscana, di Resina ( Cecioni, De Gregorio, Rossano e De Nittis) a Napoli, di Rivara (Pittara, Avondo, Bertea, D’Andrade, Pastoris, Rayper, Issel) in Piemonte, nei quali i pittori “nuovi”, carichi di energia antiaccademica, trovarono un punto di riferimento e di confronto per la loro ricerca artistica. Questi centri, infatti, non furono surrogati dell’accademia, non costituirono una sua fase evolutiva, né tanto meno vollero essere una riproposizione dell’antica scuola nella quale il maestro era l’unico depositario di tecniche e talenti; bensì vollero assicurare una possibilità di sviluppo dei contenuti, di scambio di atteggiamenti “democratici”, di crescita individuale inserita in un contesto sociale. E la “libera” attività dei partecipanti fece sì che attraverso le singole esperienze si giungesse allo svolgimento di verità e di progetti comuni.

L’importanza di questi “centri” fu fondamentale perché da essi si può trarre il processo di meditazione e di evoluzione che gli artisti innovatori percorsero. Avendo essi stabilito che la pittura è pittura del vero e nel vero , che il carattere e il rapporto, il tono e il valore, sono da esprimere negli spazi di colore e che la luce deve entrare nella sintesi degli impasti, questi pittori si ritrovarono a confrontarsi in una dialettica i cui termini erano dati dall’esperienza, dalla conoscenza visibile e sensibile.

A Bologna la rivoluzione del vero non tocca direttamente l’esperienza degli artisti della prima metà dell’ ’800. L’Accademia della Restaurazione tiene lontana qualsiasi tensione (il romanticismo lombardo e il purismo romano, per esempio) che possa distrarre dalla compilazione del quadro storico e dalla commissione religiosa di cui la pontificia accademia è tramite. Il presidente Masini, pur sostenendo “un vero di natura” alla Brjullov , restava assolutamente attaccato alla conservazione, contrario a qualsiasi innovazione. Tra queste la Protettrice, di cui teme che possa innescare un processo di allontanamento degli artisti dai principi divulgati dall’Accademia e, in particolare, dal predominio da essa accordata alla pittura di tema storico.

In questa situazione “da non ritorno”, escono dalla palude del conservatorismo, tendendo l’occhio al vero, la pittura di paesaggio di Campedelli, la tecnica “a campiture” e quella coloristica “a macchia” di Guardassoni. Bisognerà attendere il primo decennio della seconda metà dell’Ottocento quando la rivoluzione del vero a Bologna avrà in Luigi Bertelli il suo primo protagonista. Questo artista bolognese e di grande spessore inietterà nel paesaggio padano la sua forza emotiva trasformandolo, attraverso la sua pittura, nella realtà del vero.

La rivoluzione delle commitenze

L’Italia unita si accinge ad attuare nel campo economico tutto ciò che è necessario per essere all’altezza, come nuovo Stato nazionale, degli altri paesi europei. Pur consapevole della mancanza di beni primari e di strutture, come pure di una arretratezza dovuto al suo essere “colonia” si accinge ad attuare quella prima rivoluzione industriale che i paesi occidentali sviluppati avevano ormai concluso, utilizzando, fortunatamente i mezzi che la seconda rivoluzione industriale offre: scoperte scientifiche, chimiche, l’elettricità (motore a scoppio) e l’applicazione in modo sistematico del libero mercato. E’ nel muoversi in questa direzione che il nuovo stato unitario consolida una nuova borghesia che unisce al fine di mantenere e allargare le proprietà terriere, la voglia di affrontare acquisti di beni mobili che sottolineino una posizione sociale e soddisfino il piacere culturale. Così che la borghesia affronta l’arte della, e nella, seconda metà dell’Ottocento e diventa nuova committenza.

Uno degli strumenti funzionali alla borghesia per potere partecipare all’acquisto delle arti figurative è la Protettrice. Essa, infatti, da una parte pubblicizza l’opera degli artisti che sono sprezzati dall’Accademia, come il paesaggio e la pittura di genere, dall’altra parte diventa acquirente di opere d’arte. Infatti i quadri esposti avranno come possibili compratori la Protettrice stessa, i suoi soci e il pubblico. Con questa nuova istituzione, quindi, l’artista, oltre ad aumentare le possibilità di guadagno, può indagare con libertà “espressioni” come la pittura di paesaggio, i ritratti e le scene familiari che tanto affascinano la buona borghesia e, per questi lavori, utilizzare formati medi e piccoli. La dimensione del quadro, insieme alla tecnica e al soggetto saranno i veri artefici della rivoluzione della committenza in questa ultima parte del diciannovesimo secolo.

Raffaele Faccioli e gli artisti del suo tempo

Come si è precedentemente detto, la Bologna ex papalina è refrattaria alle istanze di rinnovamento, perché ancora legata alla conservazione politica e ostile al rinnovamento istituzionale e culturale. Gli artisti, per attingere alle novità ed alle atmosfere prodotte dai nuovi movimenti artistici, debbono uscire dalla città felsinea e cercarli altrove, nella stessa Italia e in Europa.

A Bologna l’accademismo e il decorativismo continuano ad essere pittura di riferimento. Il primo alimenta il soggetto storico e scolastico e procura commesse istituzionali e religiose. Il secondo punta sul vedutismo descrittivo, l’argomento mitologico e aneddotico, temi ideali per interventi estetici in abitazioni, ville e palazzi privati.

In questa situazione stagnante emergono, a Bologna, quattro figure di artisti: Luigi Bertelli, Luigi Busi, Luigi Serra e Mario De Maria che, insieme a Faccioli, daranno lustro in Italia e nel mondo, all’arte emiliana.

Si può dire subito che, per quanto riguarda il rapporto artistico Faccioli è in sintonia con Busi e Serra, non con Bertelli e De Maria.

Luigi Busi, più anziano di Faccioli e suo insegnante al Collegio Venturoli, è l’artista che maggiormente lo avvicina nella scelta del tema verista. Busi infatti aveva dipinto nel 1867/68 “Visita di condoglianze” che gli procura un premio alla I°Esposizione nazione di Parma nel 1870. L’importanza di questa opera oltre al soggetto trattato, così chiaramente indicato dalla titolazione, segna l’abbandono definitivo da parte dell’artista del quadro storico: fino alla sua morte si dedicherà a contenuti che esprimono la contemporaneità attraverso episodi della vita di tutti i giorni.

Faccioli e Busi, rispetto ai contenuti, sono sulla stessa lunghezza d’onda, ma si differenziano per la stesura e il linguaggio espressivo. Perciò, mentre Faccioli comunica atmosfere letterario-poetiche, Busi si intrattiene sull’attenzione minuziosa dei particolari, nella scelta precisa degli abbigliamenti, come pure degli arredi, degli accessori e delle suppellettili, arrivando a trascrizioni minute e raffinate, ricche di effetti fotografici. Vale per tutti, come esempio, “La commendatizia”, dipinto che, pur riflettendo la stesura intimista borghese del quotidiano della scuola di Piagentina (“La lezione della nonna” di Silvestro Lega, “ Interno di studio” di Telemaco Signorini), si sofferma, a scapito dei contenuti, in atmosfere che ricordano più propriamente lo stile biedermeier.

Con Luigi Serra ha punti di contatto forti.

Primo fra tutti la formazione. Lo stesso collegio, la stessa Accademia, lo stesso Pensionato svolto nelle stesse città, Firenze prima e Roma, poi.

In secondo luogo la tenace volontà di iniettare nel quadro storico il vero, in modo da scrollare di dosso all’immagine trascritta l’aneddoto e l’irreale.

E ancora la caparbietà di rappresentare il vero nella propria verità.

Questi sentimenti Serra li concretizza in tutta la sua opera. Inizialmente gli ideali dell’autore bolognese prendono corpo nella prova finale per il Pensionato Angiolini del 1870 “Annibale Bentivoglio prigioniero nel castello di Varano concerta la fuga con certo Danese Parolaio”. Poi li tuffa nella quotidianità popolare e contemporanea di “ Al Monte di pietà”. Infine li sistematizza nel suo ultimo capolavoro “Irnerio che glossa le antiche leggi”.

Il legame intellettuale ed espressivo unisce Serra e Faccioli fino al 1870, vale a dire per gli anni della loro formazione. Poi il primo sceglie l’impegno politico e sociale, l’altro la tensione letteraria del verismo. Resta l’ideale del vero nella verità a dare il
senso della continuità del loro rapporto.

Mario De Maria segue lo stesso percorso formativo di Busi, Faccioli e Serra. Di quest’ultimo diventa amico fraterno, tanto che nel 1882 lo seguirà a Roma, dove Serra resterà fino al 1888, anno della sua morte.

De Maria è l’innovazione anti-accademica.

A Roma, nel 1886, in occasione della prima mostra della Società “In Arte Libertas” fondata nello stesso anno da un gruppo di artisti innovatori, di cui Nino Costa è l’anima, De Maria presenta diciotto dipinti, tra cui lo sconcertante “La luna sulle tavole di un’osteria”. E’ uno choc per il pubblico. Da pittore sconosciuto diventa una “rivelazione”. Fantastico, visionario, evocativo sbalordisce per la libertà d’espressione, per l’intensità dell’uso del colore, per i soggetti che toccano i confini di un mistero in cui sogno, dolore, luce sono gli elementi di una dialettica che prende corpo da una tecnica caparbia, al limite dell’ossessivo. In tutto ciò è ovvia l’incompatibilità di intenti, di sensibilità e di stesura tra Faccioli e De Maria.

Luigi Bertelli è il più anziano tra i sopraccitati artisti e, al contrario di loro, non segue studi specifici in arte. Niente Collegio Venturoli, niente Accademia e niente Pensionato Angiolini. La sua formazione nasce dal dilettantismo tipico della borghesia del tempo (nel suo caso campagnola) che, si trasforma in professionismo, alimentato da una passione che gli fa intuire il senso più profondo dell’arte. Chi gli detta quella che sarà la sua estetica, Bertelli ce l’ha quotidianamente davanti agli occhi: la sua fabbrica, gli alberi attorno, il fiume e la pianura che si apre all’orizzonte. Bertelli non ha bisogno di uno studio nel quale dipingere il mondo attorno a lui. E’sufficiente una tavolozza di colori, una tavoletta, dei pennelli e lo sguardo per ritrarre “La pianura dall’alto”, “Tramonto”, “Aurora – Ponte degli stecchi” e tutti i dipinti che saranno presenti a tantissime esposizioni, riceveranno dei premi, ma lo costringeranno a mendicare acquisti e, comunque, a morire in miseria.

Il lavoro di Bertelli non ha proprio nulla da spartire con le opere di Busi, di Serra, di De Maria e di Faccioli. Se non la fede. Una sconfinata fede per l’arte che ci fa dire che la rivoluzione del vero, nei suoi aspetti più vari, a Bologna ha avuto non solo concreti risultati ma una reale militanza.

Raffaele Faccioli e la sua arte

Raffaele Faccioli nasce e si forma, come abbiamo detto all’incrocio di cinque rivoluzioni, in un periodo eccezionale, dove tutto può succedere in positivo, ma dove è facile, anche, perdere se stessi e vedere sfumate le proprie ambizioni per non avere saputo cogliere gli insegnamenti propri del cambiamento.

Faccioli, con metodo e pervicacia, assorbe tutte le evoluzioni possibili partendo innanzitutto dallo studio e dalle stimolazioni degli ambienti fiorentini, romani e napoletani, dall’amicizia profonda con Luigi Serra, artista suo coetaneo, che vedeva nel “vero” lo strumento fondamentale per innovare e andare “oltre” il quadro storico. E Faccioli è molto sensibile alla problematica del rinnovamento del quadro storico, perché in questo “vecchio” modo di fare arte capisce che sono concentrati i limiti dell’espressione dell’artista rispetto all’evoluzione dei tempi. Faccioli infatti è convinto che il suo lavoro d’artista deve innanzitutto essere finalizzato a captare la vita e la storia profonda dei personaggi che rappresenta, siano essi storici o contemporanei. I suoi tentativi per raggiungere ciò sono molteplici, anche durante lo studio all’Accademia. All’età di 24 anni, l’espressione di questa attitudine Faccioli la rivela concretamente nella stesura di “Belisario e Giovannina sua figlia che per le vie di Bisanzio chiedono aiuto per la loro esistenza”, il cui bozzetto l’artista presenta come prova finale del suo Pensionato Angiolini a Roma.

L’importanza di questo dipinto sta, in modo particolare, nella somma di elementi creativi che costituiranno la base tecnica e contenutistica dell’arte di Faccioli. Il soggetto storico è un pretesto per fare emergere i sentimenti umani della sconfitta, dell’abbandono, dell’umiliazione e, soprattutto, quello dell’amore filiale che è più forte di qualsiasi disastro personale. Il senso del destino ineluttabile che coinvolge la vita degli esseri umani scaturisce dalla struttura estetica dei personaggi che sono rappresentati dall’artista, tenendo presente la tecnica del “vero morale”. Il corpo di Belisario proteso verso quello della figlia eretta e nobilmente dignitosa, sono a testimonianza di un’etica che fa parte della stessa fisicità degli individui e che necessita di una descrizione al vero. In questo dipinto, sul piano tecnico e estetico, Faccioli mette a frutto gli insegnamenti di Busi, di Puccinelli e Ferrari (a Bologna) e di Altamura (a Firenze); dal punto di vista del linguaggio non nasconde di utilizzare le conoscenze ricevute dalla frequentazione di esposizioni regionali e nazionali, veicoli per captare le nuove espressioni proprie della contemporaneità. Tanto che in “Belisario” sono presenti i germi di quello che andrà a costituire il discorso culturale del pittore bolognese. In questo dipinto, Faccioli, essendo consapevole che il quadro storico è un soggetto a cui un artista non può sottrarsi se vuole essere considerato tale dalla cultura ufficiale accademica, resta fedele a tale insegnamento, ma ne elimina l’aspetto aneddotico, il trionfalismo visivo, l’illustrazione e riporta il “fatto storico” all’uomo, ai suoi sentimenti profondi, psicologizzandolo attraverso la forma e il colore. Belisario e sua figlia escono dall’ “avvenimento” per diventare “categoria”, persone che hanno in sè stesse gli effetti degli umani accadimenti. Faccioli così universalizza i suoi personaggi e, umanizzandoli, li inserisce nell’etica che la società del tempo andrà ad assimilare.

Questo suo forte senso di sensibilità interpretativa della vita dei personaggi descrittti, Faccioli l’aveva già messo in atto, negli anni precedenti producendo immagini che evidenziavano la vita nella sua quotidianità e nei suoi aspetti sentimentali e intimi, dove le sensazioni e gli affetti sono i protagonisti.

Nel 1867 aveva partecipato alla Promotrice di Firenze con “L’abbandono preveduto”; l’anno dopo alla Protettrice di Bologna con “Giorno dei morti” e a quella del 1870 con “Il congedo della nonna”. Perché, dunque, nel 1870, come saggio finale per il Pensionato Angiolini, Faccioli presenta “Belisario” e alla Promotrice “Il congedo della nonna”? Perché sapeva che l’Accademia era ferma nei suoi principi conservatori e, parallelamente, aveva con precocità intuito che lo scopo delle Promotrici e Protettrici era quello di coinvolgere un pubblico più vasto (non solo specialisti) rivolto anche all’acquisto delle opere esposte. Per queste manifestazioni quindi Faccioli, testando ciò che il “verismo” letterario aveva nelle sue corde e nei suoi obiettivi, si indirizza a indagare soggetti che tocchino sentimenti comuni e universali e, seguendo la lezione di Meissonier, il quale era ben guidato dall’abilissimo Goupil, esporrà quadri di piccole dimensioni.

Come, si è visto, Faccioli è assolutamente inserito nella cultura che la seconda metà dell’ Ottocento sta costruendo. Di questa cultura l’artista carpisce tutte quelle sfaccettature del vero che possono adeguarsi ad un concetto di vita regolamentata da principi borghesi etico-religiosi. E’ per questo suo partecipare alla cultura verista, di cui l’aspetto deamicisiano è il più apparente, che Faccioli ha rispondenze più che lusinghiere a livello nazionale e internazionale, sia dal punto di vista della critica che economico. Anche per questo, c’è chi ravvisa nell’arte di Faccioli degli spunti alla Fortuny, artista, all’epoca, assai imitato, soprattutto dopo la sua prematura ed improvvisa morte nel 1874. A mio parere, non ci sono connessioni tra i due artisti, sia come formazione culturale, sia per la tecnica compositiva e coloristica. Per Fortuny la creazione di immagini intimiste e quotidiane non segue la filosofia verista, che durante la sua vita si stava delineando in Francia e in Italia, ma muove dal sentimento scenografico: una ricca scenografia che comprendeva il senso del vero dell’artista spagnolo applicato tenacemente nell’ “en plein air” e nella ripresa, di qualsivoglia soggetto, dal vero.

Faccioli, al contrario, come ho già detto, è totalmente un prodotto della scuola pre e post-unitaria felicemente inserito nella cultura filosofico-letteraria della seconda metà del XIX° secolo.

Ovviamente, per l’artista che vive in una città di provincia, seguire un unico filone fra i vari possibili dell’arte figurativa, significa, soprattutto in quel periodo di grandi cambiamenti, restare fuori da quella committenza che dà la possibilità di vivere in modo dignitoso ed essere “visibile” nell’ambiente artistico. Per i pittori bolognesi coevi di Faccioli, l’eclettismo, infatti era un elemento indispensabile. Ed eclettico è il nostro artista.

Scrive a due anni dalla morte del fratello, lo zio Gualtiero alla nipote Bice: “…Oltre ai tanti ritratti fatti alle persone di famiglia egli dipinse quelli dei coniugi Conti Rossi Foschi, Sanguinetti, Sassoli, Vanzini, Maccagnani, Regiani, Querzola, Natali; quelle delle signorine Yarak, Zucchini, Sarti, Musini, Pinocchi e quelli dei professori Panzacchi, Protsche, Benetti, Busi, Verardi, Azzolini, Massa, Volta, Conti, Neri, Baraldi, Lambertini e tanti altri dei quali non mi sovviene la memoria, né mi fu dato trovare alcuna riproduzione grafica.

Per moltissimi anni egli alternò le opere di pennello e le tante lezioni che impartiva alla più eletta gioventù bolognese col dedicarsi ad illustrare libri e riviste, e i suoi disegni sempre ammiratissimi, furono disputati dalle migliori case editrici. Operò, e copiosamente, in lavori decorativi, lavorando in specie coll’illustre Prof. Gaetano Lodi per il palazzo del Kedivè d’Egitto, per diversi teatri, chiese, circoli artistici, ecc. ”.

Dall’analisi del dossier preparato dal fratello risulta evidente l’eclettismo di Faccioli, con grande attenzione e privilegio per l’arte che esprime il suo sentire.

I soggetti religiosi e gli affreschi

Dei tanti interventi in campo figurativo, il tema religioso fu quello dal nostro artista meno frequentato.

Faccioli lo affronta accettando le commissioni dalla chiesa di S. Bartolomeo di Musiano e da quella di S.M. della Purificazione in via Mascarella a Bologna. Per la prima dipinge la pala dell’altare maggiore che raffigura, appunto, S. Bartolomeo, vestito con il saio, sulle nubi celesti che guarda estatico il creatore. Per la seconda, una Madonna con bambino e San Giuseppe di cui esiste un delicatissimo bozzetto. Si cimenta inoltre in una “Sacra famiglia”, in cui la Madonna, serena e materna, seduta su di uno scranno regale, accarezza dolcemente il capo canuto di Giuseppe, mentre la ,loro giovane creatura si tende verso il padre per baciarlo. Il dipinto racchiude indubbi elementi autobiografici: un modo per l’ autore di manifestare l’importanza che attribuisce alla figura femminile e il suo amore per la famiglia.

In quanto agli affreschi, lo stile scelto da Faccioli è quello della decorazione settecentesca,
in cui putti, amorini e leggiadre fanciulle si corteggiano in cieli azzurri e liberi.

I Paesaggi

Intensa, al contrario è l’attività paesaggistica che occupa una consistente fetta della vita dell’artista, soprattutto nell’ultima parte della sua vita. Il suo “riprendere” il paesaggio attiene ai dettami di una accademico vero purista: pulito, lineare, con coloriture nitide, nette e sicure. Secondo questi principi costruisce le vedute di Venezia, di cui “Pescatori in laguna” è proverbiale per la sua intensità; i paesaggi dell’allora campagna bolognese, “Sul Reno” e “Mattino sul fiume (Pontelungo)”; come pure la serie del Cadore con il Monte Pecol che fa da fondo e quella del  “Mulino d’Igea”. La stessa tecnica la utilizza nelle immagine urbane, come in “Conceria in via Capo di Lucca”, di cui esiste uno studio la cui ripresa è dalla strada e non dal canale.

Faccioli, per formazione, prima di cimentarsi nell’opera definitiva prepara degli studi. Lo “studio”, quindi, è uno strumento di lavoro fondamentale e non eludibile. In tutte le sue opere, questa realtà è chiara, palese. C’è lo “studio” e c’è l’opera finita. Sono del parere che questo assioma non valga per i paesaggi. Esistono degli oli su cartone che sono delle opere concluse, finite, dei dipinti fine a se stessi. “Via Rizzoli”, “Il mercato di mezzo”,  “La scaletta nel giardino”, i due “Il platano nel parco di villa Giulia”, “Antica stradina bolognese” seguono la libera emozione, costruiti su “impressioni”. I colori sono quelli reali, propri del bosco, del prato, delle foglie, della strada sterrata, della pietra, delle tegole, delle case consunte dal tempo; le luci, come sempre, sono quelle naturali, senza trucchi di costruzione. In questi dipinti, ciò che Faccioli concede alla pittura sono i grumi di impasto, le schegge di pennellate, gli abbandoni della materia. Come quando si cimenta nel bozzetto. Ma quello che imprime è qualcosa molto di più che un bozzetto: la libertà. E così, nello stesso modo, seguendo questo istinto compositivo, sono dipinti i due trittici: “Lago di montagna”, “Albero”, “Lago alpino” e “Chiusa”, “Villa con collina”, “Lago di montagna”.

I Ritratti

Uno spazio importantissimo della sua arte, Faccioli, lo dedica al ritratto, che per lui non è identificazione fotografica. I suoi ritratti, infatti, non potranno mai fare parte di una fredda e asettica galleria di antenati, perché per il pittore bolognese i visi delle persone sono uno strumento per raggiungere la loro anima e raccontare la loro storia. Nel ritratto, l’artista arriva ad esprimere in modo profondo il suo concetto di verismo psicologico che consiste nel carpire, dai visi stessi, l’umano desiderio. E per raggiungere questo scopo, a volte li rappresenta nell’ambiente che è loro più consono.

Il ritratto di Lorenzo Stecchetti (Olindo Guerrini), per esempio, fa parte di questo filone. Lo scrittore è seduto davanti alla sua scrivania e tutti gli oggetti che fanno da contorno alla sua figura contribuiscono in modo consistente a completare il suo carattere in tutte le sue sfaccettature. Stecchetti stesso, a conferma del risultato stilistico e psicologico, mise le parole al dipinto, con la seguente poesia:

“Lo schiaffo, la carezza, il bacio e il morso,
Il velen del pensiero e del discorso,
La calma della fede intemerata.

La strada del dolor l’ho insanguinata,

Il sentier della gioia io l’ho percorso,
Ho bevuto la vita a sorso a sorso
E depongo la tazza ormai vuotata.

E pur se con la mente alla passata

Età ritorno ed al cammin trascorso,
La mia serenità non è turbata.

Seguono l’anima e l’occhio in alto il corso

Lieve del fumo con la pace usata
E in fondo del bicchier non c’è il rimorso”

Giacomo Leopardi, 1883

Anche il ritratto della giovanissima Matilde Serao appartierne al sopraccitato filone; come pure quello di Giacomo Leopardi di cui una riproduzione fotografica De Amicis teneva nel suo studio.

Un mio amico cieco associa il colore rosso con l’atteggiamento della sicurezza e il sentimento della serenità femminile. Quale espressione psicologica Faccioli ravvisasse nel colore rosso non so. E’ certo che l’artista bolognese lo inserisce nella maggior parte dei ritratti femminili, come coloritura di particolari o come tinta dominante. Per l’artista è un importante punto di riferimento. I dipinti “La marchesa Maria Mazzacurati Talon” e “Direttorio”, hanno rosso il cappello; “Contadina” il bordo del fazzoletto che incornicia il capo; “Beatrice Faccioli” il cuscino appoggia-schiena della poltrona; “Ventaglio rosso” e “Nastro rosso” chiaramente gli oggetti indicati dal titolo.

Certo è che Faccioli usa il rosso nei ritratti per descrivere la luce, per illuminarli. Senza dubbio il suo lavorare in interni, e bui, oltre ad essere una tecnica pittorica, è un moto della sua sensibilità, è un’esigenza del suo inconscio. Faccioli, negli interni, come si è detto, non usa luce diretta, a meno che nella scena non vi siano lampade. L’artista non apre mai le finestre, la luce che viene dall’esterno non fa parte della sua estetica. Quindi la luce è il rosso e rosso è qualsiasi oggetto o indumento che può creare la luce. E così la giovane Giulia Faccioli Rizzoli ripresa con piume rosse sul cappello e garofani rossi appuntati alla scollatura di un corpetto a scacchi rossi e neri; il viso e i capelli di una giovanetta, “Ragazza con fiocco rosso”, sono illuminati da un abbigliamento e da accessori rossi. Più c’è rosso e più c’è luce. Ma il punto più alto di questa sua particolare tecnica pittorica, Faccioli lo raggiunge in “Signora con ombrellino rosso”. La ripresa, al contrario di tutti gli altri ritratti è, certamente, all’aperto, ma i toni della luce esterna non sono espressi. Esistono soltanto i rossi dell’ombrello, dell’abito, del ventaglio, dei fiori nei capelli e sul cappello: un bagliore di luce e l’apoteosi del rosso.

Altra caratteristica dell’impianto costruttivo del ritratto di Faccioli è l’uso del“primo piano”, con effetti tridimensionali, in modo da fare emergere i particolari che più esaltano la personalità del soggetto e possano farne intuire il profondo. Se il “primo piano” è, per l’artista bolognese, lo specchio dell’anima delle persone, questo suo credo vale anche per gli animali dei quali Faccioli traccia una piccola ma indimenticabile galleria.

E l’effetto “primo piano” lo inserisce anche nei dipinti che al primo sguardo, possono sembrare le classiche “pose ufficiali” davanti ad un obiettivo fotografico, quelle tipiche per essere tramandate ai posteri.

Nel 1909 ritrae la figlia Bice in abito da “debutto”. Ciò che l’artista trasmette al fruitore non è la sontuosità del tessuto, il modello dell’abito da gran sera, la mano elegantemente guantata che regge il ventaglio. Ciò che vuole mettere in risalto è lo sguardo luminoso e il sorriso sereno che trasmettono la consapevolezza dell’importanza dell’occasione. L’aspetto fisico è un tutt’uno con il proprio intimo e manifesta le sensazioni profonde e quelle del momento che sta vivendo. Così come nel ritratto “Mio padre”: negli occhi vivacissimi si legge la stanchezza di una vita trascorsa e nello stesso tempo la sicurezza del presente , una forte sicurezza come la mano che impugna il bastone. Nell’impianto di questo dipinto l’incarnato del viso e della mano prendono vita dalla luce rosata di una fonte che indubbiamente parte dai palpiti dell’artista.

I soggetti veristi in “interni”

Il cuore dell’arte di Faccioli è il verismo che esprime sia nel quadro intimista e familiare, sia nella descrizione di una quotidianità urbana o campestre con una molteplicità di sfaccettature che vanno dal riso al sorriso e alla gioia, dalla tristezza al dolore, dalla vita alla morte. Faccioli infatti in circa quarant’anni dei suoi quasi sessanta di attività artistica, ha dipinto un folto numero di soggetti familiari intimisti e affettivi, in interni e in esterni, tanto che non è sufficiente una antologica per poterli esibire tutti. Inoltre, una grande parte di questi temi appartengono a musei e a privati di tutto il mondo. Ed è appunto con i dipinti che seguono questo filone che Faccioli partecipa alle promotrici e alle esposizioni nazionali e internazionali riscuotendo gran successo di pubblico e, anche, di vendite. Quindi si può solo sperare in un’altra grande mostra dedicata al nostro artista che raccolga quella gran parte di produzione acquistata dai musei e dai privati di tutto il mondo.

Elemento di grande interesse è che il verismo di Faccioli segue le emozioni che esprimono gli scrittori veristi come Betteloni, Guerrini, De Amicis, come pure la letteratura del melodramma che più che mai è in auge.

Di questo verismo letterario l’artista esprime, seguendo il suo carattere, l’aspetto non conflittuale, una realtà, che deve essere sentita tranquillizzante e senza angosce, anche quando è il dramma della vita che raggiunge i livelli più alti di tensione emotiva.

Nel dipinto “Ricordo struggente” in cui ritrae il primo piano di una giovane donna morta, tutto, anche l’atmosfera, è assolutamente “vero”, ma l’animo di chi guarda pensa a un sereno “al di là”, non all’inconsolabile dolore per una vita finita. La pacatezza delle tinte, la composizione floreale che addolcisce ancora di più la delicata pelle della “dormiente”, il tenue contrasto delle tonalità dai bianchi ai blu plumbei, quindi, suggeriscono, nell’animo del fruitore, speranza e non disperazione.

In “Spensieratezza giovanile”, di cui esiste un bozzetto intitolato “Il cancello”, tre ragazzini (due nel bozzetto) giocano tranquillamente davanti al cancello di un cimitero. La metafora è esplicita, eppure la violenza psicologica del soggetto è bloccata dal gioco della pittura. Infatti i ragazzi che chiacchierano sono adombrati dal crepuscolo e il cimitero con le sue tombe e le sue croci è oscurato da uno smagliante rosso ocrato nel fondo del dipinto. Faccioli, in questo dipinto, riconduce una scena macabra nella consuetudine popolare e campagnola per cui il cimitero è un luogo di giochi e di confidenze e, nello stesso tempo, sdrammatizza l’angoscia della morte.

E lo stesso meccanismo lo applica ne “I falciatori”, dove la dicotomia tra vita e morte arriva ad essere simbolo. In questo dipinto si palesa sempre la filosofia verista di Faccioli, per cui gli elementi naturali e semplici, come la terra e il lavoro, fanno da antidoto alla paura e l’artista, in questo modo, trasforma l’ineluttabile dramma in riflessione e porta l’animo del fruitore ad una tranquilla speranza.

Faccioli ricorre sovente al tema della morte creando, in alcuni casi, delle vere e proprie sequenze, come se fossero i capitoli di uno stesso racconto, in cui il filo comune è dato dalla non-solitudine. Nel dramma umano c’è la famiglia che partecipa, unita, alla sofferenza e fondamentale è l’appoggio che può dare. Così “La lettera dell’abbandono”, “Il congedo della nonna”, “Il giorno dei morti”, sono “scatti” dove l’ambiente è arricchito da presenze che creano la coralità, in opposizione all’assenza.

Ma non è solo rispetto alla morte che l’artista sente fondamentale l’esistenza della famiglia. In  “…Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria…”, interpretazione della parte del sonetto dal canto V dell’Inferno di Dante, l’artista fa riferimento ad un dramma familiare affrontato da una madre rassegnata che fa da supporto alla disperazione della giovanissima figlia. Come pure in “Viaggio triste” il rapporto madre-figlia è la chiave per capire, accettare, affrontare e superare il dolore.

Questi soggetti , pur rappresentando la tristezza degli abbandoni, la disperazione della vita vengono esorcizzati dalla paura esistenziale attraverso un meccanismo psicologico che l’artista introduce nella sua pittura e che ha la forza di scaricare le paure della vita e tutto ciò che queste comportano.

Come, per esempio nel dipinto “Nell’ansia dell’attesa”, la possibile sofferenza di attendere che un desiderio venga esaudito, è resa serena dall’atmosfera dei toni smorzati, quieti e dal viso rilassato in cui si intravvede la fiducia.

E la comprensione e la conoscenza del dolore permette all’artista bolognese di dedicarsi ad ogni aspetto, quotidiano e non, della vita, mantenendo integro il suo sentire. La sua pittura, infatti, esprime il fondamentale tendere sia all’equilibrio psicologico, sia all’ordine delle cose, caratteri necessari per affrontare la vita. Illuminata da questi principi la pittura di Faccioli scandisce la quotidianità all’interno della mura domestiche. E’ un insieme di momenti che, come le pagine di un romanzo, raccontano la vita di una famiglia attraverso i gesti e le attività dei suoi componenti. E così li conosciamo nel gioco: “I piccoli militari” e “I piccoli artisti”, “Due amici”; nei momenti personali dei ragazzi: “La colazione di Nelly”, “Serenità”, “La lettura di Don Chisciotte”, “La lettura di Boccaccio”; nelle affettività del rapporto madre e figlio: “Alba d’amore”, “Nessuno mai t’amerà dell’amor mio”, “Febbre”, “Alba nova”; nelle tenerezze del rapporto nonni e nipoti: “Alfa e Omega”, “Amici intimi”; nel solidale stare insieme degli anziani: “Riso e sorriso”, “Altri tempi!”, “Post-prandium”, “Sereni tramonti”.

Una sintesi del suo sentire domestico, Faccioli lo propone in un trittico, in cui illustra quelle che ritiene essere attività esemplificative di una famiglia borghese: “A tavola”“Il compito” e “Giocatori di carte”.

Anche il viaggio, può essere per Faccioli una occasione per insistere sul tema dell’ “interno”.

Egli infatti affronta “il viaggio” affidandosi a quel mezzo di trasporto, moderno e popolare per eccellenza, che è il treno. E lo scompartimento è il luogo prescelto per fare vivere i suoi racconti. Nei dipinti “Viaggio triste”, “In partenza” e “Vicit amor patriae” si consumano storie di sentimenti di cui l’artista fissa l’equilibrio, trattiene l’esaltazione, sospende gli effetti degli eventi. Crea la pausa. In opposizione alla velocità del treno, ogni emozione è attenuata da una “attesa” che è la concretezza che dovrà essere costruita e sulla quale si dovrà contare per il futuro.

Tecnicamente, in questi tre lavori, Faccioli costruisce l’impianto scenico che prende luce dal finestrino dello scompartimento. Conoscendo la tendenza all’intimità dell’artista, stupisce questa “apertura” nell’impaginazione di situazioni così personali. Indubbiamente Faccioli sente lo scompartimento non solo come “dentro”, ma anche come “fuori”. Non è uno spazio domestico, ma pubblico, di appartenenza anche ad altri, quindi l’occhio esterno ha la possibilità di arrivare dal di fuori, senza potere fare nulla, dipende dal destino. Ma c’è un’altra possibilità, ossia che Faccioli, abbia sentito il bisogno di illuminare i dipinti, come Silvestro Lega e gli artisti della scuola di Piagentina, che passano dalla “macchia en plein air” al quadro di interno che prende
luce dalla finestra.

Tutti i dipinti del filone intimo-familiare sarebbero da analizzare, uno per uno per l’interesse che singolarmente presentano. Non essendo questo possibile all’interno di un saggio che affronta l’artista Faccioli nella sua globalità, mi limito a sottolineare gli elementi estetici di questi dipinti nel loro insieme. Come tecnica, Faccioli, affronta il soggetto interno-domestico come potrebbe fare l’occhio di una macchina fotografica senza flash: l’immagine, quindi, è piatta e la luce è naturale. Il gioco delle tonalità giostra su tutta la gamma dei pastelli, sui bruni (ai quali mischia il rosso) e, su tutte quelle tinte naturali che saltano fuori da una illuminazione anch’essa naturale, come il petrolio, il gas, la candela. Alle tonalità e alle luci Faccioli affida il suo messaggio sui sentimenti familiari, che non vuole essere altro che un’espressione del suo credo.

L’occhio di Faccioli rispetto alla “famiglia” è, come si è visto , rivolto esclusivamente all’interno. Vi sono però due dipinti che possono essere letti come spartiacque tra “interno” ed “esterno” e, anche per questo, rappresentano una interessante scelta estetica, ma pure psicologica di Faccioli.


Raffaele Faccioli, Benedetto Croce, Corrado Ricci…

Nel primo, “Preparandosi per la passeggiata”, essendo la scena ripresa all’ombra della casa, la luce “esterna” è contenuta negli abiti bianchi delle due signore che si accingono a uscire e dagli abiti l’ambiente prende luce.

Nel secondo, “Le sorelline di latte”, l’immagine è ripresa dall’esterno e le figure, due piccole coetanee e una giovane donna stanno “appese” ad una finestra, appiattite dalla luce, senza dimensione. Infatti è l’unica opera familiare dove protagonista è la luce e, con la luce, i colori. Nel bagliore, l’incarnato delle bimbe è nella gamma dei rossi della pianta di gerani a cascame e il bianco delle vesti illumina i corpi stessi. L’”esterno” si apre all’artista in tutta la sua luminosità, tanto da dare l’impressione che
la “ripresa” non sia di un casolare della campagna della piatta bolognese ma di quella napoletana. Indubbiamente questo dipinto testimonia (insieme a Lo spazzacamino”) la sua attenzione a un pittore come Antonio Mancini, da cui trae la forza della luce e della cultura mediterranea: il quadro è lì a ricordarcelo, nei colori, nei sorrisi e negliocchi parlanti dei personaggi ritratti. Altro elemento che sottolinea l’importanza di questo lavoro, è che Faccioli trova il modo di unire il soggetto borghese con quello popolare. La balia di campagna è insieme alla propria figlia e a quella di latte; tale elemento di carattere sociale, tanto caro ai veristi e, in particolare modo, a De Amicis, lo ritroviamo, già nel 1870, nello splendido “Ore due: i piccioni a Piazza San Marco”, dove il gioco del ragazzino popolano di fare scappare gli uccelli accorsi per il cibo gettato dai turisti, oltre a tagliare il due il dipinto, separa il gruppo dei borghesi che offrono cibo ai volatili, da quello che sta arrivando per visitare la famosa piazza. In questo lavoro l’elemento sociale è compositivo, mentre nel precedente ha il carattere della consapevolezza di una divisione di classe che, come sostengono alcuni movimenti politico-letterari del periodo, va ricucita.

I soggetti veristi in “esterni”

Gli elementi tecnici e letterari-filosofici utilizzati da Faccioli nell’impaginazione degli interni domestici, vengono da lui riproposti negli “esterni”, dove ritroviamo, in modo sempre incisivo, il suo credere la vita attraverso il verismo.

Per Faccioli, la pittura di “esterni” è un modo di seguire con i suoi pennelli le stagioni e quello che la gente fa nei diversi periodi dell’anno: l’inverno in “Scalinata di San Petronio con neve” e la primavera in “Terrazza sul mare”.

In questi dipinti Faccioli, come linguaggio espressivo, usa le trasparenze, a imitazione dell’aria che respira, della libertà conquistata. Infatti Faccioli trasforma l’intimismo psicologico in una liberata stesura della realtà e va oltre l’introspezione. L’”esterno” è un filtro sufficiente che permette di esprimere a pieni polmoni le sensazioni che giungono da tutti i possibili pulviscoli di vita. Come in La signora con l’ombrellino rosso”, in cui l’immagine è prodotta da una luce totale, oppure in “Lettura in campagna”, dove la gioia dell’aria aperta arriva a trasformare Faccioli in un curioso umorista, facendogli dipingere sul fondo un gigantesco toro, attento all’attività intellettuale della giovane. Oppure in “Ultimi sorrisi d’autunno” in cui la ricerca del “bello” e dell’emozione è affidata a un tranquillo paesaggio fluviale arricchito da spogli alberi di alto fusto, matrimonio perfetto fra arte e natura.

La poetica verista-letteraria nei dipinti all’aperto, Faccioli la sublima ne “Un fiore che langue”. In questa opera l’assenza del tempo viene espressa con tonalità sospese che incalzano nel silenzio. La statica morbidezza della signora seduta sulla poltrona a dondolo, ferma, in attesa, controcanta con il mutismo del cielo; il languore è la somma delle tonalità e delle linee geometriche, senza movimento che incalzano sulle parole di una storia taciuta.

Si è detto “esterno” uguale estroversione. E più che mai è vero quando Faccioli si trova di fronte al mare. In queste occasioni la sensibilità pittorica dell’artista ci regala delle sfaccettature della sua arte ancora sconosciute. In questi dipinti viene espresso il momento più alto della libertà emotiva. Si potrebbe dire che il senso della libertà pittorica per Faccioli è come una forbice che va dalla chiusura degli interni domestici alla apertura dei paesaggi sul mare. In questi, la tensione a lasciarsi andare ai giochi di luce e di colori è grande, tanto che il pennello scivola sulla tela creando spazi carichi di sensibilità ed emozione. Esempi, tra i molti, di questo sentire “Piccoli bagnanti al mare” e “Sulla spiaggia di Porto San Giorgio”. Ma il profondo verismo dell’immagine, l’impressionante senso della realtà e della visione diventano tangibili in “Tramonto sulla spiaggia di Fano”, dove i corpi dei bagnanti si sottendono tra acqua, terra e cielo, come in una visione mistica.

Il senso di libertà della luce e del colore è vivo anche nelle opere di carattere campestre, contadino e popolano. Illuminata dal sole, ridente e gioiosa è la stesura dei tre dipinti “La raccolta dei bachi da seta”, “Al mercato dei bozzoli” .e “Al mercato della seta bolognese”. In questi lavori Faccioli, con pennellate immediate e un’atmosfera ariosa, sintetizza un’attività lavorativa che aveva reso famosa Bologna, dal 1400 in poi, in tutto il mondo occidentale (la tessitura del filo di seta), rendendo omaggio alla coltivazione dei bachi, attività molto diffusa nelle campagne.

Un’opera particolarmente interessante è Le rogazioni”. L’artista coglie l’occasione per soffermarsi su una tradizione a cui il mondo contadino era legatissimo e, pittoricamente lavora sia sui contrasti, per altro da Faccioli poco usati, sia sulle campiture
e sulle colorazioni di gusto quattrocentesco.

I Film

Faccioli è interessato ad analizzare ed a sottolineare, momento per momento, atteggiamenti, comportamenti e abitudini, insistendo affinché possa essere costruito ciò che l’artista ritiene essere un storia definita. In tal modo arriva a creare una moltitudine di immagini che, si è detto, molto spesso fanno parte di un’unità. Questo suo atteggiamento deve essere visto, non come casuale, ma come una straordinaria intuizione che amplia le possibilità della comunicazione visiva legata all’arte figurativa.

Esiste una serie di dipinti che è sottotitolata “Chiaro di luna”. Al primo colpo d’occhio si potrebbe dire che l’artista, in queste opere, vuole evidenziare un particolare sentimento per il riflesso che la luce del nostro satellite ha sulle persone e sulle cose. Faccioli è appassionato, come si è detto, dal naturale e il riflesso lunare, per lui, è come una fiamma di un ciocco, di una candela o di una lampada: è naturale. In “La malattia”, per esempio, il fascio di luce lunare entra dalla finestra e, disegnando una scia sui letti della stanza buia, fa intravvedere le persone che assistono il malato. In questo caso il racconto di Faccioli finisce nella descrizione della scena e non va oltre. Per altri dipinti dal sottotitolo sopra citato, invece, non è così. E’ come se l’artista avesse una cinepresa e filmasse le sue storie da cinema muto, creando un film con poche, ma esemplificative, inquadrature.

Il primo film. È notte, la luna illumina la terra e getta la sua luce sulla finestra, ,vuota, di un maniero. A questa finestra si affaccia una donna che guarda nel buio (L’attesa”). Infine la stessa donna e un uomo, protetti da una terza persona, fuggono, scendono dallo scalone del maniero (“La fuga”).

Il secondo film. E’ il crepuscolo, le stanze di un cascinale di campagna stanno prendendo fuoco. Un piccolo gruppo di contadini si accinge a intervenire per spegnere l’incendio. L’incendio aumenta, altri contadini arrivano insieme alle donne e ai ragazzi: le fiamme sono alte e il fumo esce dalle finestre. Il fuoco si è ridotto a un piccolo bagliore. La folla che guardava, prima, con ansia, non si muove, resta al suo posto, impietrita (“Dramma rusticano”).

Un’altra storia a “sequenze” è “Il giuoco del pallone” composto da una serie di due dipinti: “La rimessa” e “La battuta”.

Ma la storia filmata più complessa e completa ha per soggetto un gregge di pecore. E’ il racconto di una transumanza, con attraversamento di borghi, di pianure e vallate, soste in rifugi.

Con albe, crepuscoli, tramonti, notti piovose, temporali e uragani. Insomma tutto ciò che la fantasia può costruire sul tema “trasferimento di bestiame” proiettabile in una sala cinematografica, con tanto di didascalie e musica suonate al pianoforte da un pianista in un impeccabile frac.

Faccioli ha recepito cosa significa macchina da presa e scrittura cinematografica. I suoi dipinti seguono infatti una sceneggiatura precostituita e le riprese non sono fotogrammi come scatto a sè stante, ma un “insieme”di immagini capace di costruire un racconto.

Il nostro artista bolognese ha lavorato per tanti anni, lasciando un cospicuo numero di opere di alto livello, il cui fondamento è, sia il sentire poetico in sintonia con il suo tempo, e una tecnica espressiva il cui linguaggio si attiene alla tradizione. Ma se si vuole trovare una chiave di lettura della modernità di Faccioli, è necessario dividere i suoi lavori per categorie, al cui interno cercare le sequenze cinematografiche. In questo modo la pittura di Faccioli assume la forma che egli aveva nel cuore e nella mente, vale a dire quella di “scrivere romanzi” di vite vissute, di quotidianità, di affetti, di gioie, di dolori, di incontri, di attese, di abbandoni. Romanzi d’amore. Questa è stata la rivoluzione estetica di Faccioli. Ma rivoluzione c’è stata, anche, nel vivere una vita di rapporti familiari, amicali e di lavoro, in cui l’onestà, il rispetto, la correttezza professionale fanno di lui un artista amato dai suoi contemporanei per la sua arte e per sè stesso, come essere umano oltre che come artista.